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DAGMAR SIGBERS: MUSICA IN UN VIAGGIO TRA GERMANIA E ITALIA

 

 

Contributo a cura di Roberto Ferro

 

Dagmar Sigbers mi incontra con un semplice sorriso in uno strano tardo pomeriggio milanese. Il quartiere Isola Garibaldi é appena riemerso dall’esondazione del Seveso ma l’intervista a questa simpatica artista, in un attimo, ristabilisce luminosità e serenità.

Da quale Paese provieni?

Sono nata in Germania” – risponde Dagmar – “a Papenburg un villaggio della Renania settentrionale, al confine tra Germania ed Olanda. In tutti i casi, nella fredda Germania del Nord a una ora d’auto da Brema. Sono figlia di madre tedesca e padre olandese.”.

Quando hai iniziato a cantare in pubblico?

Ho iniziato prima nel coro della scuola, poi molto giovane con varie band. Inizialmente non ho legato molto con il mondo della musica anche se mi ero fatto un nome esibendomi in veste da solista. Quel tipo di concerti, tuttavia, non mi soddisfaceva molto,; li sentivo dissonanti con la mia sensibilità. Le cose sono bruscamente cambiate solo quando Marck Coles, un baritono, dopo avermi casualmente ascoltata, mi ha detto: “Non devi imitare ma sentire ciò che canti e interpretarlo di conseguenza!” Questa osservazione si é rivelata decisiva per la mia vita”.

Nella tua vita la musica era, per così dire, già scritta nelle stelle..

E’ vero” – risponde sopra pensiero Dagmar – “Anche se l’ho conosciuto solo a venti anni, mio padre era DJ. E in famiglia tutti, chi più chi meno, siamo interessati alla musica. Mio padre conservava i cassetti stracolmi di CD e dischi in vinile, con lui ho scoperto che esisteva il jazz…Questi sono i fondamenti della mia musica! ”

Perché sei venuta in Italia?

Adoro vivere in Italia! Ci vivo ormai da lungo tempo e qui ho vissuto i miei amori. Ho un lavoro di responsabilità, impegnativo, in una multinazionale. Soprattutto, da otto anni sono ripartita con la musica, da autodidatta e con lezioni di canto con la mia insegnante Luigina Bertuzzi, che mi hanno educato la voce. In Italia mi sono esibita con musicisti di grande talento tra cui Michele Fazio, Emilio Foglio, Andrea Zuppini, Nerio “Papik” Poggi”.

Mi ha piacevolmente sorpreso la tua dizione (quasi) perfetta in italiano e inglese..

Per la verità” – mi risponde sorridendo -” parlo (non troppo bene) anche il veneto e il napoletano (la sorella di mia madre ha sposato un napoletano)”.

Nel corso degli anni hai frequentato molti generi musicali (soul, blues, pop e rock) per soffermarti ora sul jazz. Quali le caratteristiche di questo percorso?

Ho frequentato i generi musicali che hai nominato. E’ anche vero che un genere “puro” mi sta stretto. Un’anima esclusivamente jazz limiterebbe la mia musicalità interiore. La mia è commistione, fusione, jazz contaminato con il pop, il soul e altri generi ancora. La mia gestualità “naturale” raccoglie e integra tutto ciò”.

La tua voce (o, per meglio dire, il tuo naturale strumento vocale) è fine, delicata e, pur tuttavia, in grado di raggiungere notevole estensione vocale. Concordi?

Hai ragione! Non suono altri strumenti musicali se non, appunto, la…voce. La mia voce é descritta da una frase che mi fu detta dall’insegnante di canto: “Perché non utilizzi la tua timidezza come occasione di affermazione vocale?”” La timidezza inoltre ha un effetto anche sul suo rapporto diretto con gli spettatori. Dagmar ha la preziosa capacità di tramutare il palcoscenico in home music, di creare intimità, salotto musicale, senza ricorrere a gestualità seducenti o accattivanti.

Plasmi brani musicali, noti e meno noti, rispettandone l’anima. Potresti specificare?

E’ vero” – risponde sorridendo “Già la mia é una musica essenziale che elimina l’elettronica. Io prediligo canzoni nelle quali “sentirmi” emotivamente e esprimere l’anima. Per rendere al meglio ho bisogno di capire cosa provo, di suoni nitidi e semplici, dove melodia e voce si incontrano”. Anche se può sembrare paradossale, nei concerti talvolta ho bisogno che i musicisti mi “aiutino” nell’interpretazione. Per questo motivo mi atteggio in fiducioso dialogo con loro (ed il pubblico questo percepisce immediatamente)”.

Quale significato assume per te l’interpretazione di brano musicale?

Innanzitutto non dobbiamo stravolgere il loro significato intimo, profondo. Per esempio, mi riferisco a brani che ho eseguito, “Sunny” di Bobby Hebb è stata composta il medesimo giorno della morte del fratello e della morte di John F. Kennedy e non mi sembra opportuno escludere questo significato esistenziale. Lo stesso è vero con “Tears in Heaven” di Eric Clapton composta in ricordo del suo bambino morto tragicamente. In altre occasioni, come con “Coyote” di Joni Mitchell, rispetto la struttura. Sono i format a imporre cover poco rispettose richiamando l’attenzione esclusivamente sull’esecuzione e l’imitazione!”